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8/3/2010

"Il fotografo": dal reportage al fumetto, una storia di guerra all'incrocio dei media

L'autore francese Emmanuel Guibert è protagonista di una mostra a Bologna, mentre escono due suoi volumi in italiano. Il disegnatore racconta come è nata una delle sue opere più famose, realizzata con Didier Lefévre e Frédéric Lemercier

«I fumetti esprimono una visione del mondo, e in questo momento la esprimono molto meglio della letteratura e del cinema»: questo ha sostenuto Goffredo Fofi in uno degli incontri del festival Bilbolbul di Bologna. Uno degli autori di fumetti più innovativi del panorama internazionale è certamente Emmanuel Guibert: le opere di Guibert, nato in Francia nel 1964, sono tradotte in varie lingue. Al libro Il fotografo di cui è autore con Didier Lefévre e Frédéric Lemercier nell'ambito del festival Bilbolbul è dedicata la mostra alla Cineteca di Bologna in via Riva di Reno che durerà fino al 12 aprile. Il libro è stato ristampato in occasione del festival in una nuova edizione in volume unico dalla casa editrice Coconino; in Francia ha venduto complessivamente oltre trecentomila copie. Si tratta di un'opera originale, all'incrocio fra media diversi, la cui genesi è descritta da Guibert nell'intervista che segue. Il libro racconta l'esperienza che il fotografo Didier Lefèvre (scomparso nel 2007) ha avuto durante una missione in Afghanistan nel 1986 (mentre era in corso il conflitto contro l'Unione Sovietica) per l'organizzazione non governativa Médecins sans frontières. Emmanuel Guibert è autore anche di La guerra di Alan (il cui terzo e conclusivo volume è da poco uscito in italiano), dedicato alle memorie di un soldato americano in Europa durante la seconda guerra mondiale, e di alcuni libri a fumetti per bambini (fra cui Ariol con Marc Boutavant, presente anch'egli al festival Bilbolbul con una mostra).



Ne Il fotografo lei ha integrato il racconto fotografico dell’esperienza di Lefèvre in Afghanistan con i disegni costruendo una storia omogenea. Come ha lavorato? Come si sono distribuiti i compiti fra lei, Didier Lefèvre e il terzo autore, Frédéric Lemercier?



«Tutto è cominciato in un pomeriggio del 1999, che ho passato a casa di Didier Lefèvre. Dopo pranzo gli ho chiesto di scegliere un reportage fra tutti quelli che aveva fatto nei quindici anni precedenti e di raccontarmelo sapendo che avremmo passato la giornata insieme. Lui è sparito nel suo studio ed è tornato con le foto dell'Afghanistan, dicendomi che l'aveva scelto perché per lui era stata importante l'esperienza in quel paese: era stata la sua prima missione importante, dove aveva avuto l'impressione di praticare e imparare il suo mestiere veramente. Ha tirato fuori da tutte le scatole che aveva portato con lui circa centotrenta provini che raccontavano tutta quella storia. Durante le due o tre ore successive ha cominciato a puntare col dito una fotografia dopo l'altra raccontando la storia. Durante tutto quel pomeriggio ho vissuto qualcosa che neanche io sapevo nominare: un'esperienza tra il film, la radio, il romanzo. Mentre lui parlava io non dicevo niente, ascoltavo: però stavo bollendo dentro, sentivo che c'era qualcosa da fare con tutto questo. E mi sono detto: bisogna conservare le sue fotografie e creare dei disegni, un testo, fra le fotografie, per mettere il lettore in condizioni di capire cosa succede nelle fotografie. Per mostrargli tutto quel che è successo fra due fotografie quando lui non poteva farlo. Alla fine di quel pomeriggio gli ho proposto di fare un libro insieme – una proposta che non si aspettava – senza sapere bene neanche io come avremmo fatto, con l'idea che avremmo trovato un modo cominciando a parlare. Due settimane dopo ci siamo ritrovati ed eravamo all'inizio di una serie di appuntamenti, mese dopo mese, nei quali lui mi ha raccontato in dettaglio questa storia. Sapevo di non poter cominciare senza aver capito tutto quel che lui poteva dirmi sul soggetto. Quindi prima di pensare a scrivere e a disegnare ho ascoltato, e ho fatto mille domande sulla missione. È arrivato un momento in cui ho avuto l'impressione di essermi ricostruito, io, una memoria della storia a un punto tale che talvolta lo correggevo nell'identificare il momento di una certa foto. Quindi ero maturo per cominciare a scrivere e ho scritto. Ho scritto il primo volume».



Come è andato avanti il vostro lavoro?



«Dopo tutte le ore passate insieme, anche se eravamo già molto amici, ho guadagnato una fiducia da parte sua che l'ha condotto a lasciarmi i provini: un gesto equivalente a quello di uno scittore che affidasse la brutta copia di una sua opera. Era come dire: “Pubblica quello che vuoi”; una cosa che non succede mai. Però avevo bisogno di quella fiducia per lavorare. Era allo stesso tempo una testimonianza di amicizia e di fiducia ma anche una responsabilità per me. Quindi ero in buone condizioni psicologiche per cominciare a lavorare. E ho scritto. Ho scritto senza disegnare. Ho scritto per settimane. Ogni giorno prendevo il telefono e chiamavo Didier. È stato un periodo molto letterario, in cui cercavo di trovare uno stile parlato, naturale, da trasferire sulla pagina naturalmente, in modo da poter dire “io” come se fossi Didier».



Anche l'altro suo libro La guerra di Alan, è in prima persona.



«Il fotografo è diverso da Alan perché non si tratta di un diario, sono delle memorie: fin dall'inizio sappiamo che quell'uomo ci parla. E la verità è che per La guerra di Alan (e per il libro sull'infanzia di Alan su cui sto lavorando adesso) non ho aggiunto nessuna parola alle sue. Sono cucite in un modo che non è quello della conversazione, però sono tutte parole sue. Per Didier ho dovuto ricreare un diario, che è esistito ma è sparito – la storia è raccontata alla fine del libro – quindi quel documento non esiste più. Era quel documento che mi interessava, per poter camminare veramente giorno dopo giorno con loro, e non è stato possibile. Quindi ho ricreato i loro rapporti a partire dalla sua testimonianza, dalla sua pittura del carattere degli altri. Leggevo sempre i risultati a lui per verificare se rimanevo nella pista o se uscivo troppo. La scrittura era un processo per cui seguivo sempre i provini e sceglievo le fotografie giorno dopo giorno».



Quante sono le foto?



«Su quattromila fotografie non ho mai fatto il conto di quante ne sono state inserite nel Fotografo, ne avrò messe forse cinquecento. Quindi scrivevo e allo stesso tempo mi facevo una lista di tutte quelle fotografie. Quando tutto questo è stato completato, e Didier era soddisfatto del risultato sono andato a vedere Lemercier dicendogli di aver bisogno della sua maestria con il computer e della sua esperienza di gafico per fare i colori e l'inserimento delle foto nella sequenza dei disegni. Gli avrei consegnato delle pagine con dei buchi, con degli spazi vuoti e lui avrebbe inserito le foto in modo graficamente adeguato. Quindi all'inizio ho lavorato con dei buchi nella pagina senza conoscere il risultato finale. Ho dovuto talvolta cambiare delle pagine perché l'effetto finale non era riuscito, però col tempo siamo diventati abbastanza efficaci. Bisogna pensare che tutto questo ha preso cinque anni di tempo».



Nel "Fotografo" è partito dagli scatti di Lefèvre: lo fa anche in altri casi? Preferisce disegnare dal vivo o, come diversi artisti ed autori di fumetti, parte da una fotografia?



«Per Il fotografo ci sono state diverse persone che hanno pensato che i disegni fossero copiati dalle fotografie, ma non è così. Tutti i disegni sono inventati. Per esempio ho fatto due o tre volte nel libro il controcampo: vedere il fotografo che sta scattando la fotografia, presentare il contesto. Ovviamente quando ho fatto questi disegni ho seguito l'atmosfera della fotografia, però non era la fotografia che disegnavo ma quello che era attorno. Per dire le cose in modo breve e semplice: ho lavorato in modo che il lettore non possa vedere se usata o no la foto come fonte di ispirazione. Ne La guerra di Alan per esempio ci sono un sacco di scene quasi storiche: l'imbarco nella nave eccetera... dove ho usato dei documenti perché non potevo fare altrimenti, però volevo che l'immagine successiva fosse fatta senza alcuna documentazione però senza che questo fosse visibile dal lettore. Mi piace la possibilità di pescare in un'immagine che esiste già se mi dà ispirazione, se mi aiuta come fonte di documentazione».



I fumetti sono spesso definiti letteratura disegnata: nel caso del fotografo c’è un intreccio di media che sembra definire piuttosto un nuovo genere di forma espressiva. È così?



«In un articolo che ho letto alcuni giorni fa sul Fotografo scritto da un americano si diceva qualcosa che mi ha colpito. Questo giornalista diceva che la fotografia, i reportage, vengono sempre presentati con un testo, per capire cosa succede. O è una breve legenda o un testo lungo che spiega la situazione. Il lettore, noi tutti, cambiamo approccio cognitivo quando passiamo dall'esame della fotografia alla lettura della legenda.Bisogna prima guardare la fotografia e poi leggere per capire che cosa succede. Quello che permette il fumetto è di leggere e vedere in un solo sguardo. Ci sono tante persone che dicono di non saper leggere i fumetti perché non sanno se devono prima leggere il fumetto e poi guardare eccetera. Per chi è cresciuto nei fumetti la domanda non si pone, è naturale. Quindi è usato come modo naturale di mischiare immagini e testi per inserire le fotografie e permettere al lettore – e a me come autore prima – di leggere le fotografie, di capire le fotografie senza avere l'obbligo di smettere di guardare per leggere. Se c'è una novità nel fotografo è questa volontà di inserire il lettore nel cuore della fotografia, nella visione, senza avere mai smesso di guardare. E non so come questo tipo di rappresentazione, di storia possa essere demominato».



Le sue due opere principali, Il fotografo e La guerra di Alan (di cui esce il terzo ed ultimo volume in coincidenza col festival Bilbolbul), hanno seguito un percorso simile: in tutti e due i casi ha raccontato storie altrui, partendo da un racconto orale, collegate a fatti di guerra. C'è un legame fra queste sue due opere?



«Se non avessi fatto Alan non avrei fatto Il fotografo. Alan mi ha mostrato il cammino, è con lui che ho capito il mio modo di lavorare e quella voglia che avevo di raccontare memorie di altre persone in prima persona. Se Didier ha avuto la fiducia di cui ho parlato è perché lui aveva letto La guerra di Alan e conosceva il lavoro che avevo fatto. Quindi ho potuto dirgli: “ Facciamo qualcosa che sia come Alan, salvo che ci saranno le tue fotografie dentro”».



Lei è autore anche di fumetti per bambini, in che rapporto sono col resto della sua produzione?



«Ci sono generazioni di autori che hanno fatto solo fumetti per bambini perché era il solo tipo di fumetti esistente. Poi sono venuti gli anni Sessanta e la possibilità di fare fumetti per adulti; quasi tutti gli autori di trent'anni in quel periodo si sono messi a fare fumetti adulti. I fumetti che io ho letto da bambino non erano fumetti fatti da giovani autori, erano fumetti di autori nati negli anni Venti o Trenta. La possibilità che ci è regalata adesso è di fare fumetti destinati agli adulti e fumetti per bambini. Io lo faccio perché mi dà un equilibrio: avrei l'impressione di camminare solo su una gamba facendo solo una delle due cose: sono due aspetti di importanza uguale. Non è che quando levo dal tavolo i fumetti per adulti e metto quelli per bambini entro in una ricreazione: è un lavoro difficile e appassionante come l'altro».



Essendo lei stato disegnatore per opere scritte da suoi colleghi, come nel caso di David B., e sceneggiatore come per la storia per bambini disegnata da Boutavant Ariol (tutti e due autori presenti a Bologna), ritiene che uno dei due aspetti sia prevalente?



«Ovviamente ho bisogno di tutte e due. Mi rendo conto che se rimango uno o due mesi senza disegnare perché devo scrivere, magari per sceneggiare un cartone animato (o per qualche altro motivo), mi manca. Per questo porto con me dei quaderni che mi consentono di disegnare anche nei periodi in cui sono costretto a scrivere. Disegnare per altri è la possibilità di andare in cammini dove non vai da solo, quindi è già qualcosa. Scrivere per altri è come mandare una lettera senza sapere quale sarà la risposta: sai più o meno cosa sarà in fondo perché c'è il tuo testo ma la forma ti sfugge completamente. Ariol per esempio è un fumetto molto vicino al mio cuore, perché è la mia infanzia, un po' mischiata con quella di mia figlia, con quello che vedo intorno a me eccetera. Quindi considerando che i genitori di Ariol sono più o meno i miei, che la nonna è più o meno la mia mi sono detto che se lo avessi disegnato sarei stato troppo legato alle mie memorie; quindo ho affidato il disegno a Boutavant, per ricevere un po' della sua infanzia nella mia».
Una pagina de "Il fotografo"
Una pagina de "Il fotografo"


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